M. N. Shyamalan, Staring at the Invisible [ITA]

M. N. Shyamalan, Fissare l’Invisibile, un dialogo cinefilosofico

Shyalaman’s cinema is the focus of this conversation with professor Gabriele Guerra. In this interview – available only in Italian – we delved into the director’s imaginative worlds to understand what are the distinctive features of the American filmmaker’s cinematography.

Published on Frame On Line, online magazine / Pubblicato su Frame On Line, rivista online

dilettante – L’opera di M. Night Shyamalan, considerata in un corpus che va da Il Sesto Senso sino a The Happening, racchiude ed enuclea delle «idee di mondo» che potremmo racchiudere indicare come “le terribili potenzialità dell’umano”. C’è un Fuori che interviene costantemente nella vita dei personaggi ma di cui l’uomo (che per Shyamalan è sempre di sesso maschile) non ha né la conoscenza né la capacità di controllo. Proprio per questo ci sembra che il cinema di S. non possa essere derubricato a genere tout court. È d’accordo con questa ipotesi?

Gabriele Guerra – Non potrebbe essere detto meglio. Il Fuori di cui lei parla finisce per coincidere, in tutti i film di questo autore, con un Altrove che non fa altro che postulare, implicitamente ed esplicitamente, il qui-ed-ora di cui si nutre proprio in quanto tale. È vero anche che, in quest’ottica diciamo filosofico-politica – ovvero, per quel che riguarda le dinamiche teoriche di individuazione delle forme comunitarie anche a partire dalle controdinamiche distruttive, negatrici, o semplicemente trascendenti quello spazio pubblico comune – l’Uomo in quanto maschio esercita una funzione cruciale (potremmo perfino dire: hobbesianamente sovrana); ma aggiungerei che, in questa chiave, la Donna riveste un ruolo altrettanto cruciale: in quanto non portatrice dei valori di legittimità e di fondabilità dello spazio comune, può porsi agevolmente ai margini di quella comunità, e da lì comunicare meglio – e da qui il suo carattere “perturbante” – con quell’Altrove minaccioso.

In tal senso, mi pare di poter concordare pienamente anche con la sua ultima affermazione, secondo cui il cinema di Shyamalan non possa essere derubricato a genere – immagino, nel senso qui semplicemente del genere dei film di cassetta, quelli che in gergo si chiamano “Blockbuster”. Se di genere in questo cinema si tratta, è quello che dal punto di vista commerciale potremmo situare all’incrocio tra le esigenze del mercato – che Shyamalan ha sempre ben presenti – e quelle della propria dimensione specificamente autoriale, quello che un tempo si sarebbe detto il “messaggio”. Shyamalan tiene insieme, insomma, i due aspetti principali del cinema di oggi, istanza autoriale e istanza commerciale (ma del resto in questo non è affatto solo, anzi incarna una tendenza assai precisa della cinematografia dei nostri tempi, forse addirittura quella mainstream).


d. – L’indirizzo diegetico dei film di S. , scrivono in molti, è ricorrente, classicamente proppiano. Il percorso che vi si svolge muove da una situazione di base, in cui la semplice realtà appare venata di crepe (a). In un secondo momento (b) c’è una rottura delle connessioni causali in cui l’epifania ha ripercussioni laceranti dentro il racconto. Infine la situazione di ritorno rilascia un coagulo di elementi eterogenei in cui la situazione preliminare non ritorna uguale (a), ma modificata (a’).

G. G. – È vero. È lo è ancor più se si considera la sua suggestione proppiana nella sua specificità interna: non è tanto per linee “semplicemente” narratologiche, io credo, che si possa cioè comprendere una delle funzioni più interessanti di questo cinema, ma proprio applicando queste categorie direttamente all’ambito per il quale sono state originariamente pensate: quello folklorico ed antropologico dei “racconti di fate” – come la storica edizione boringhieriana traduce l’aggettivo russo corrispondente a “magico” – o nelle “fiabe” tout-court. Si tratta in altri termini di recuperare all’estetica shyamaliana una dimensione precipuamente fiabesca, intendendo qui: costitutivamente ‘narrativa’ (secondo la ben nota etimologia di mythosfabula in quanto “storia”), e dunque fondativa, letteralmente cosmo-gonica.


d. – Una certa spiritualità sepolta ritorna sempre a pungolare la civiltà razionalistica e tecnocratica di cui è permeato l’Occidente. La tradizione fabulatoria è una grande  risorsa rigeneratrice per l’umanità.  In Shyalaman le storie non si limitano a intrattenere, non sono fatte per essere lasciate nei libri o nella memoria perduta di un sapiente vegliardo. Al contrario sono proprie le storie, le fiabe, una tradizione orale ai limiti del superstizioso, a rappresentare i punti di vibrazione dei suoi film. L’Occidente invece non ha più la capacità di  riannodare un qualche tipo di relazione con la natura, la fiaba e la metafisica…

G. G. – Appunto. Già solo per questo, per l’incapacità occidentale di “raccontare storie” che giustamente lei sottolinea, si potrebbe apprezzare ancor meglio l’ipotesi di lavoro fondamentale di questo regista.


d. – Il ruolo dei bambini appare sempre centrale in tutti i film di Shyalaman come primi recettori di un disturbo nella realtà nonché antenne sensibili nel decifrare i messaggi provenienti da altre sfere della percezione. Il disincanto invece avvolge come una cortina fumogena gli adulti, immersi in un mondo nichilisticamente prostrato, in cui non si riconoscono e anzi vi soffrono. Forse qui si riconosce il portato teologico delle religioni orientali per cui la salvezza si dà come armonia con il mondo circostante, con la natura (vedi The Happening) e con gli esseri umani, senza l’intercessione della grazia e della redenzione. In questo senso i bambini si contraddistinguono per essere più vicini alla natura.

G. G. – L’importanza accordata ai bambini in molti dei film di Shyamalan mi pare discenda da quanto detto a proposito dell’elemento ‘fiabesco’ in senso proprio, e dunque dal processo evolutivo che da una situazione (a) porta ad una situazione (a’) modificata. Propp ci insegna che il bambino è al centro del dispositivo magico di questo tipo di racconti innanzitutto come “attante” concreto, e non solo come principale fruitore del medium narrativo. In tal senso, il bambino è il costitutivo trait-d’union tra mondi diversi proprio perché rappresenta il non-ancora-adulto (da qui l’importanza accordata da Propp ai “racconti di fate” in quanto rituali di iniziazione – culturale, sociale, sessuale). Nel caso specifico di Shyamalan, il bambino mi pare importante anche come tramite “puro” con altri mondi e altre sfere delle percezioni, come le definisce lei, in maniera molto felice.

Non so poi se “la natura” di cui si tratta nei film di Shyamalan possegga quel portato teologico delle religioni orientali di cui parla; il mio istintivo scetticismo nei riguardi di qualsiasi “occidentalizzazione” della religiosità estremo-orientale mi porta a dubitarne, anche perché mi pare che il concetto della natura esibito in questi film sia piuttosto debitore a quello di certa filosofia americana, specie in The Happening: mi pare insomma che ci aiuti nella sua comprensione più Emerson che il buddhismo.


d. – Veniamo a The Village. Qui il discorso politico è il codice metanarrativo più esposto: la paura funge da fonte di legittimazione della sovranità e la dialettica amico-nemico preserva una purezza identitaria che il film tende più tardi a demistificare. Tuttavia ci sono zone di latenza da chiarire. Shyalaman stesso ha spiegato come, volendo raccontare l’età dell’innocenza, si fosse collocato forzatamente nell’ottocento americano. Si entra in un circolo: una falsa ideologia serve a legittimare e proteggere un modus vivendi virtuoso, foriero di valori positivi e garante dell’esistenza della comunità. Forse Shyamalan cerca di raccontare come si possa «credere in questo mondo» (Deleuze) nonostante il nichilismo imperversi incontrastato oggi giorno.  Tuttavia lo stesso regista tende a registrare come irrimediabile l’emergenza di una libertà individuale che allo stesso tempo è esiziale per la comunità d’origine.

G. G. – Mi fa piacere che lei tematizzi esplicitamente proprio questo film – che, lo dico subito, è quello che più mi ha affascinato, perché è quello dove a mio parere più chiaramente viene esibito il dispositivo filosofico-politico di cui parlavo all’inizio. Necessaria appare anche la collocazione nell’ottocento, e per un doppio motivo: il primo, il più ovvio, risale al meccanismo stesso. Il processo di demistificazione dell’”impostura fondativa”, della “falsa ideologia” (l’esistenza delle creature terribili al di là dei confini del villaggio, ma che non sono altro che una invenzione degli anziani che lo governano, con lo scopo di preservarne l’integrità e la chiusura) è eminentemente illuministico; per cui la sua successiva messa in questione non può che situarsi, cronologicamente, nell’epoca del “romanticismo politico” (nella quale invece il riapparire dei démoni che il mondo “liberato dalla magia” aveva messo da parte, è posto al centro della percezione, diventando così un fatto eminentemente politico). Il secondo punto riguarda invece lo “specifico filmico”: l’ottocento del film è una proiezione, una “quinta” anche nel suo senso più proprio, visto che il mondo, al di là del villaggio e del bosco che lo circonda, è andato avanti e ha ormai raggiunto il XXI secolo. Per cui il film esibisce, perfino a livello topologico, una genealogia molto chiara: in principio vi era il meccanismo dis-velante illuminista, cui si è contrapposto quello ri-velante del romanticismo – ed oggi ci troviamo ancora immersi in questa diade oppositiva/completiva, senza intuire il mondo che al di là di essa continua nella sua esistenza.

È verissimo, poi, il senso di questa “impostura”, anche nei termini da lei delineati facendo riferimento a Deleuze: proprio perché la nostra epoca, in cui imperversa il nichilismo che impedisce di fatto ogni possibilità di “credere in questo mondo”, è frutto di queste due polarità filosofiche (apparentemente) inconciliabili, che si impone in tutta la sua drammatica urgenza il nodo concettuale del rapporto tra libertà e comunità; ed è ancor più vero che tale nodo sia ancor più urgente per quanto riguarda la filosofia politica americana, che ragiona, più sistematicamente di quella occidentale, su tale nesso.


d. – A me sembra che si ponga in The Village il problema di una spiritualità politica o di una mitologia necessaria a garantire le fondamenta ideali del concetto di popolo, nazione, Stato. Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue-Labarthe, di fronte al problema dell’uso distorto proprio del “mito” da parte dei fascismi, scrivono: «La questione della possibilità di una figura archetipica della democrazia e di una possibile imitazione del suo “modello”, non è così nuova come si potrebbe pensare. Non a caso uno scrittore come Maupassant, potè inventare nel 1880 la storia di quell’impiegato che si ingegna ad assomigliare a Napoleone III, ma per il quale “l’avvento della repubblica fu un vero disastro. Anche lui cambiò opinione; ma dal momento che la repubblica non era un personaggio vivente, a cui si può rassomigliare e che i presidenti della stessa si succedevano con estrema rapidità, cadde nel più crudele imbarazzo, in uno stato di spaventosa indigenza, deluso in tutti i suoi bisogni di imitazione (Les dimenches d’un bourgeois de Paris)”. C’è già tutto: la democrazia senza un modello, o come modello risibile – e tuttavia il grottesco di una scimmiottatura dei modelli». In The Village mi pare che la questione si riproponga in termini analoghi.

G. G. – Si, e aggiungerei: la questione della democrazia e del suo “grottesco” – per riprendere la definizione di Nancy e Lacoue-Labarthe – si pone anche in termini genealogici, non solo critici. Ogni forma di governo possiede i suoi “archetipi”, ovviamente; la democrazia però, cerca al contempo di celarli il più possibile (nella misura in cui non intende presentarsi come mito politico). In più – e questo mi pare decisivo, nel caso americano alla base di The Village – la democrazia americana è essenzialmente basata su un mito politico-religioso: la comunità fondativamente archetipica (al di là della sua effettiva dimensione storica-fattuale) è quella dei Padri Pellegrini del “Mayflower”, ovvero di quella comunità puritana radicale per la quale l’analogia teologico-politica con il “popolo eletto” funziona perfettamente, senza residui. Quella comunità si presenta cioè chiusa esattamente nella misura in cui intende mimare, con la sua fuga coatta da un’Inghilterra ormai compiutamente anglicana, ovverosia ritrasformata in “chiesa” cesaropapisticamente al servizio di un apparato statuale secolare, l’esodo del popolo eletto dall’Egitto; ed al contempo rinnovare sia i nessi teologico-politici al suo interno (“voi sarete per me un regno di sacerdoti ed una nazione santa”, secondo il limpido dettato testamentario di Es 19,6) che quelli al suo esterno (volta a volta, i rapporti da instaurare con “l’altro”: la donna, l’indiano, il francese, il messicano, il nero, – come insegna esemplarmente un testo che per certi versi mi pare alla base di The Village, ovvero La lettera scarlatta di Hawthorne). Il laboratorio americano, in altri termini, mi pare riproponga in misura paradigmatica la crux di ogni teologia politica riguardante la democrazia: come si fonda una comunità, e come viene assicurata la libertà individuale al suo interno senza che essa comporti la ricaduta nel bellum omnium contra omnes? Ripeto: i film di Shyamalan mostrano esemplarmente le modalità di formazione e di consolidamento di una comunità, sia nel suo momento interno che – soprattutto – in quello esterno, di arginamento del pericolo disgregante da parte dell’’altro”.


d. – Lo sguardo. In relazione con «l’idea di mondo» di cui abbiamo parlato, il cinema di S. ha la capacità di concentrare tutte le proprie energie dentro il linguaggio cinematografico in uno stretto rapporto con i maestri, soprattutto Spielberg e Hitchcock. E mi sembra che il Nostro riconsideri il ruolo dello sguardo proprio rispetto a quest’ultimo. Infatti, se per il grande regista inglese la pulsione scopica si inscrive in un quadro Edipico costretto tra ossessione e castrazione, l’occhio di S. è sempre in attesa di una dis-velazione, di un’apertura. C’è sempre qualcos’altro da vedere non oltre gli “enti” sensibili, bensì negli enti stessi.

G. G. – Sono assolutamente d’accordo. Il “regime scopico” in questione nel cinema shyamaliano dipende direttamente dal dispositivo teologico-politico che ho delineato. La dis-velazione, l’apertura di cui parla, rimanda ad un elemento che mi pare proprio in Hitchcock non ci sia (e che forse in Spielberg qua e là occhieggia, mi perdoni il banale gioco di parole): se nel maestro inglese la suspence si crea in quanto funzione dipendente della storia, si esaurisce magistralmente tutta all’interno del dispositivo investigativo “classico”, ovvero quello riassunto da Žižek nel suo Il soggetto scabroso (Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 381: «la trama nella quale, all’inizio, noi (il soggetto dal cui punto di vista la storia viene raccontata) ci troviamo di fronte a qualche oggetto terrificante (Cosa Aliena, Mostro, Assassino…), presentato come il punto con il quale è impossibile identificarsi») – per Shyamalan si tratta invece di consegnare questa alterità irriducibile ad una più grande, letteralmente meta-politica: volta a volta s-fondamento del punto di vista (come in The Sixth Sense, procedura divenuta rapidamente un classico del genere horror o fantascientifico), dello spazio comunitario (The Village), della datità naturale (The Happening), della percezione del proprio sé (Unbreakable). In tutti i casi si tratta, letteralmente, di vedere l’invisibile – e registrare la perturbanza che tale regime scopico comporta.


d.– Il soprannaturale nel cinema del Nostro non si mostra quasi mai in maniera diretta. Né tantomeno come manifestazione divina. Piuttosto, sono visibili le conseguenze dell’invasione del soprannaturale sui personaggi. Qui torna secondo me il riferimento alle tradizioni orientali in cui la natura stessa viene divinizzata. La peculiarità dello stile narrativo di S. risiede, a mio parere, proprio in questa sospensione della realtà, che però non ha i connotati del miracolo, dell’apparizione, ma si apre a un diverso modo di agire dei personaggi, sotto l’influsso del Fuori che sconvolge le loro vite. In Unbreakable ad esempio, il protagonista dall’inizio alla fine potrebbe non avere realmente nessun potere, potrebbe essere tutta una sua suggestione provocata dall’affetto e dalla volontà di non deludere suo figlio.

G. G. – Sì, il modo in cui il soprannaturale “si mostra” nei film di Shyamalan è senz’altro perturbante in un senso poco freudiano – semmai, potrei motteggiare, lo è piuttosto nel senso della “perturbazione”: l’elemento disturbante non fa parte di un rimosso che ritorna, piuttosto è qualcosa che giunge a increspare una superficie apparentemente quieta e immobile. In tal senso è vero e non è vero allo stesso tempo, direi, che tale sospensione della realtà non abbia i connotati del miracolo o dell’apparizione, come lei sostiene; è vero, perché qui non vi è alcuna dreyeriana epifania sacra dell’invisibile – ma non è vero, perché lo s-fondamento shyamaliano del reale possiede tratti di ciò che il grande studioso delle religioni tedesco Rudolf Otto definiva il “numinoso”, ovvero quella manifestazione potente e terrifica del sacro colto come il “totalmente altro” dall’umano, e che purtuttavia all’umano fa in qualche modo riferimento, perfino in senso positivo. Vi è una distanza, per certi versi irrimediabile, tra l’uomo e la natura, tra i sentimenti individuali e le leggi imperscrutabili del cosmo, che non si colma istantaneamente – neppure con la rivelazione della loro incomponibilità. Ma credo che questa percezione non vada interpretata ricorrendo a categorie come quella delle divinizzazione della natura e dell’uomo in essa; bensí piuttosto riconoscendo il carattere in qualche modo istitutivo, letteralmente ‘costituente’ della loro distanza: se rapporto vi è tra l’uomo e la natura, esso si da proprio nella forma del “miracolo” (inteso ovviamente nel senso datogli da Carl Schmitt, quando diceva, nella sua Teologia politica, che «lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia»), ovvero come momento problematicamente costituente di un discorso “logico” sul potere. In questo senso, per concludere tornando a quanto detto a proposito di The Village – che a mio parere costituisce l’ossatura teoretica fondamentale del cinema di Shyamalan ed al contempo il suo portato filosoficamente più interessante – se in questo cinema di filosofia politica, di fondazione della comunità si tratta, ciò avviene solo percorrendo le sue vie più estreme, più ardue, più “inverosimili”; che proprio per questo, però, risultano le più percorribili.